Tre domande (e tre risposte) ad Alberto Cariola, regista di Opening day, in scena a nin, e in collaborazione con Teatrika, sabato 16 marzo.

1 Fare teatro, secondo te, cosa significa?

La mia passione per il Teatro è nata nel 1974 folgorato dall’Antigone del Living Theatre. Vedere in uno spazio scenico vuoto i corpi e le voci di attori e attrici ed il carisma di Julian Beck generare la tragedia e scagliarla in platea, è stato affascinante e insieme contagioso. Da quella sera ho cominciato ad informarmi. Due anni dopo, per merito di una litigata con un’amica che mi parlava dell’Odin e che mi trascinò a Livorno a seguire l’Anabasis, parata di strada dell’Odin, ho conosciuto Eugenio Barba. L’aspetto che prima di altri mi ha colpito è stato il suo approccio scientifico, tecnico, antropologico e etnologico al problema. Rispondendo alla domanda su cosa sia il teatro per me, dovrei dire che “fare teatro” significa analizzare il Metodo, cioè come fare a tradurre in spettacolo l’energia degli attori e successivamente come trasferire il Metodo nel teatro tradizionale.

Anni fa cercavo qualcuno che mi insegnasse a scrivere con il corpo e la voce potenti, le cose che mi premevano e non riuscivo a comunicare. Oggi che il corpo non può più essere acrobatico o forte, devo imparare una scrittura più sottile, a tratti stentata, ma insegno agli altri la scrittura e quando vedo che imparano e danno un minuto di presenza in scena, è una sensazione piacevole lo stesso.

Se non hai energia nel corpo e/o energia nella mente, che assieme ti aprono al mondo, se non sai evocarle e controllarle, ti sfuggirà sempre il vero senso del mestiere d’attore, lavoro bastardo ma incredibile.

Dovrei dire tutto questo, ma c’è una lettura differente del “fare teatro”, quella rivolta all’esterno. Il teatro è insito in noi, non credo che morirà, forse prenderà le forme mediatiche o visive del teatro tecnologico, forse tornerà al decentramento andandosi a cercare gli spettatori che non vogliono affrontare il pericoloso viaggio verso un teatro. Non conosco il futuro remoto, ma credo che la cultura sia l’unica speranza che abbiamo, dopo che tutto il resto è fallito e nonostante i tentati omicidi cui continuamente è sottoposta.

Facendo cultura, malgrado te, ti occupi sempre di problemi sociali e politici. Naturalmente il periodo in cui il Terzo Teatro è nato ed ha avuto il massimo sviluppo è anche stato quello in cui le nostre speranze di cambiamento e l’utopia di conquista della felicità sembravano ad un passo, si doveva lottare contro Poteri forti, discriminazioni, intolleranze, violenza e altro, ma insieme e con le Idee Giuste non potevamo perdere.

Invece dopo 40 anni siamo qui a resistere, parlando di spread e corruzione, di europa e sviluppo, di primarie e questioni religiose, un poco rincoglioniti e rassegnati per l’età ormai avanzata, come naufraghi sull’isola di Lost. Penso purtroppo che difficilmente sono quelli che avrebbero bisogno di andare coattivamente a teatro che ci vanno, come le manifestazioni contro la guerra o contro gli stupri non sono frequentate di solito da stupratori o guerrafondai, quindi accade spesso che ce la cantiamo e suoniamo e ci applaudiamo da soli, mentre le guerre continuano, le violenze pure, i disonesti trionfano e “la nave di Fellini va…….”. Ma dobbiamo continuare a lottare, lo dobbiamo ai nostri figli.

 

2 Cosa ti ha portato a Woodhouse, e come arriva al pubblico il testo dello spettacolo OPENING DAY che porterai in scena sabato 16 marzo alla Fortezza Firmafede di Sarzana?

L’incontro con Wodehouse è avvenuto per caso, sulla bancarella della stazione di Bologna; lui si è offerto di farmi compagnia nel viaggio in treno. Ho scoperto una persona simpatica, arguta, dalla conversazione evocativa, capace di divaricare le trame, fino a renderle intrigate e intriganti, per poi condensarle nel finale. Così ho dovuto leggere per forza tutti i suoi libri e così ad un certo punto ho proposto agli Evasi uno spettacolo tratto dai suoi due cicli più famosi, quello di Blandings e quello di Jeeves. Per una volta ho dovuto scrivere il copione prima di lavorare con gli attori e quindi la scelta del cast è stata dettata dalla connessione al personaggio. Opening Day non è uno spettacolo comico, piuttosto è umoristico ed è quindi esaltante quando gli spettatori colgono anche le sfumature dell’umorismo nel testo, come nella replica a Casale Monferrato che è stata per me un grande regalo, percepivo da dietro le quinte le gradazioni di risate ad ogni sollecitazione.

Bisogna sempre partire dalla differenza tra pubblico e spettatori; sembra una tautologia, non è così. Chi pensa al “pubblico”, pensa ad una massa inattiva, statistica, depositaria dell’auditel, delle indagini di mercato, della maggioranza etc etc. Costui produce cultura pensando ai gusti prevalenti e/o emergenti. Chi pensa agli “spettatori”, pensa a una persona più una persona più…….ognuna con vissuto, problemi, sentire, pensare, essere differente.. Credo che la frequentazione dell’evento teatrale o comunque non mediatico, per le specificità già dette, possa solo accrescere nello spettatore la consapevolezza di se, fornendogli per accessione o per negazione le coordinate del suo “stato delle cose”, ma qui ci addentriamo in un tema delicato, psicologico, non è mio campo, mi astengo. Ho assistito a spettacoli in lingue che non conosco, su episodi che non conoscevo, eppure gli attori sono riusciti a comunicare con spettatori distanti anni luce dalla loro cultura e a costringerli a parlarsi a scena finita, a discutere perfino litigare. Questo per me è un buon risultato. Naturalmente se non riusciamo a toccare lo spettatore, dobbiamo sapere senza retorica che la colpa è nostra, che qualcosa non ha funzionato e non che “il pubblico è ignorante”.

 

3 Nin e Teatrika, le tue parole su queste due realtà

Conosco bene Teatrika ed è appassionante, perché è una sfida che da anni Alessandro Vanello e gli Evasi hanno lanciato per un territorio spezzino teatro-sostenibile. Tutti gli anni alcune Compagnie teatrali si “affrontano”, ma soprattutto si confrontano e ormai provengono da tutta Italia. Conosco meno Nin, ma so che il fine è lo stesso: l’ho letto nelle prefazioni ai programmi e nelle parole degli organizzatori. Il fine è triplice: costruire un luogo franco in cui chi fa teatro si possa incontrare, conoscere e rendersi conto di strutture diverse di drammaturgia, offrire un luogo alternativo dove gli spettatori possano trovare contatti, proposte e altri modi di vedere la scena, sviluppare, attraverso i primi due fini, la crescita di tutto il movimento culturale. Questi erano anche i fini che avevamo negli anni ’70, perciò constato con preoccupazione che qualcosa non ha funzionato nel nostro piano, ma con soddisfazione rilevo che ci si continua a provare. Cioè “Avete vinto voi, ma venderemo cara la pelle”. Infine sono così ridotte in tempo di crisi le occasioni di mostrare il proprio lavoro, che ben vengano le rassegne, i festival, le vetrine. Anche per un’altra ragione: quelli più giovani di me devono sapere, ovunque si trovino, come è straordinario il teatro, intendo farlo.

 

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